Perché ci sentiamo danneggiati, quando qualcun altro è benedetto? Una volta ho sentito l’apostolo Jeffrey R. Holland porre questa domanda, mentre esponeva la parabola del Nuovo Testamento riguardante gli operai della vigna (Matteo 20:1-16).
La ha definita come una “domanda fondamentale su cui dobbiamo lavorare, durante la nostra vita, prima che sia finita.” Nel fallimento dell’essere un altro, sto imparando ad essere me.
Ho superato i 30 anni, e ancora ho difficoltà a rispondere alla domanda dell’anziano Holland. Sono una delle più deboli creature della creazione di Dio, il fallimento fa parte di me.
Non mi ha benedetto con doti fisiche o intellettuali straordinarie, così ho trascorso gran parte della mia vita invidiando gli altri dotati di più talento, con più soldi, con più successo. Ho più volte fallito, cercando di essere come loro, dimenticando che c’è un “me” divino ed unico.
Per fortuna, gli errori e i fallimenti ci portano più vicino alla verità, tramite un processo di eliminazione. La mia incapacità di essere ciò che gli altri sono, mi ha aiutato ad imparare chi sono e quello che posso offrire al mondo.
Trovare conforto nelle Scritture e nelle parole dei profeti
Anche le Scritture e le parole dei capi religiosi, aiutano.
Vale a dire, ricevo grande conforto da Alma, un profeta del Libro di Mormon. Anche come leader spirituale, egli era leggermente poco centrato, nel suo desiderio di predicare il pentimento al mondo intero.
Egli riconosce il peccato, nella sua voglia di fare tutto, e giunge alla comprensione umiliante che non è l’unica risorsa che Dio ha, per realizzare il suo progetto divino. “Dovrei essere contento delle cose che il Signore mi ha assegnato” dice Alma (Alma 29:3).
Un altro gigante spirituale, Paolo, paragona la Chiesa ad un corpo e ci ricorda che “il corpo non è un membro unico, ma è formato da molte parti” (1 Corinzi 12:11). E Dottrina e Alleanze, un altro libro di scritture mormoni, insegna la dottrina liberatorio che “ad ogni uomo [e donna] è accordato un dono dallo Spirito di Dio” (D&A 46:11).
Essere ciò che Dio vuole che siamo attraverso il fallimento
L’eccezionale nuovo libro di Rabbi Jonathan Sacks, “Non nel nome di Dio: confronto sulla violenza religiosa”, contiene questi due spunti, degni di nota:
La pace viene quando vediamo il nostro riflesso di fronte a Dio e lasciamo andare il desiderio di essere qualcun altro (pag. 139).
Non vi è alcuna necessità di volere le benedizioni di qualcun altro. Ognuno di noi ha le proprie (pag. 170).
Ho passato troppo tempo della mia vita evitando il fallimento, dimenandomi nel tentativo di essere quello che gli altri sono e avere quello che gli altri hanno, non fidandomi della promessa di Dio che anche io ho qualcosa di speciale da offrire e dimenticando il Suo insegnamento che ho bisogno di essere contento di tale offerta.
E così vado avanti, cercando di essere il “me” che Dio vuole che io sia. L’esperienza recente mi dimostra che poche cose portano più pace, alla mia anima, che vedere il mio vero sé, nello specchio divino.
Questo articolo è stato scritto da Samuel B. Hislop e pubblicato sul sito faithcounts.com. Questo articolo è stato tradotto da Cinzia Galasso.
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